mercoledì 12 febbraio 2014

Tradurre l'identità [1]

Quasi un'anno di ricerca sull'identità sul lavoro del traduttore e quello dell'interprete, due attività teoricamente così simili, siano in fondo profondamente differenti. Ma essi resteranno, in un certo qual senso, degli artisti.

Nei grandi trattati o nei manuali di linguistica non c'è riga né capitolo che faccia cenno alla traduzione come operazione linguistica; ed i grandi trattati di filosofia, che pure si occupano tutti dei rapporti tra linguaggio e pensiero, mostrano di ignorare completamente che la traduzione (che è il passaggio da una lingua all'altra) di un pensiero strutturato potrebbe costruire quasi la base sperimentale di studi sui rapporti, appunto, tra pensiero e linguaggio.
La traduzione, dopo essere rimasta a lungo una sorta di occupazione secondaria, è oggi diventata un fenomeno di massa (una vera e propria attività industriale?), in una civiltà dove superare il muro linguistico è più difficile che non superare il muro delle distanze.
Sant'Agostino diceva: "Solo la parola ci fa essere uomini e ci permette di essere legati fra noi: così che due uomini di nazione diversa non sono, l'uno per l'altro, uomini" (se conoscono solo la loro lingua).

Ma cosa significa tradurre? La storia delle parole con cui viene designato questo lavoro, e colui che l'eseguiva, sarebbe lunga e dovrebbe occuparsi delle civiltà quanto e più che delle parole. Il francese traducteur è una parola giovane, che risale sicuramente a Etienne Dolet (1509-46). E in tale autore essa è un italianismo, ch'ebbe successo immediato: come si può constatare dalla Deffence et llustration de la langue française di Joachim Du Bellay, che già nel 1549 dedica tre capitoli dell'opera al traducteur e alla traduction.


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